C’era una volta una gatta

la gatta
la gatta

C’era una volta una gatta
Che aveva una macchia nera
Sul muso
e una vecchia…
soffitta…

Era proprio così, in Via Mantelli, quartiere di S. Marta.
Abitavamo lì, mio padre, mia mamma io e la mia sorellina, e quella casa era stata comperata da mio padre poco tempo prima dell’inizio dei miei ricordi.
Mi ricordo di muri neri e di tanti tra topolini e toponi che non si erano ancora convinti che noi fossimo i nuovi padroni di casa e quindi scorazzavano liberamente e felicemente in quella casa che era stata loro per tanto tempo.
Era stata chiamata, quella casa, l’osteria delle tre persone, a ragione di una pittura sulla facciata pianterreno prospiciente la piazzetta, raffigurante appunto tre figure, umane, non so più chi o perché.
Gli osti erano a fine carriera, oramai anziani, piuttosto sordi, mi dissero anni dopo. Dato questo loro handicap erano sovente oggetto di imbrogli e scherzi atroci.
Nel pentolone sotto il grande camino bolliva sempre l’acqua e dentro c’era qualcosa che cuoceva.
Quando, raramente c’erano polli o conigli, spesse volte venivano sostituiti dai soliti avventori, a cottura ultimata con scarpe vecchie o similari leccornie, per le risate di alcuni e le amare considerazioni dei vecchi osti.
Sic transit mundi.
Avvenne però un fatto più tragico, che fu un incendio furibondo, di notte, causando la distruzione della casa nelle parti interne e la morte dei proprietari.
Rimase poi disabitata per molto tempo.
Ecco il perché dei muri neri e dei sorci marroni.
Poi ci adattammo, sloggiammo i topi, imbiancammo i muri, nacque mia sorella e i topi era già da tempo che si erano trasferiti nella casa del Branca, nostro vicino.
Poi adottammo una gatta che aveva una macchia nera sul muso.
Questa gatta era affettuosissima e dormiva con me.
Io dormivo in un letto già alto del suo, poi aveva una bisaccia di foglie, come si usava da noi, che rialzava il livello fino all’altezza di una finestrucola con due vetri di un millimetro di spessore, di cui uno rotto e rattoppato con delle liste di carta di giornale incollate con la colla di riso.
D’inverno entrava un freddo boia!
Superfluo dire che non c’era nessun sistema di riscaldamento. Quindi la gatta costituiva un ottimo surrogato di stufa.
A proposito di stufa, facevamo scaldare dei mattoni nel forno della stufa economica a legna, poi avvolto in uno straccio veniva messo tra le lenzuola per mitigare il primo impatto, ma la gatta era meglio. Successe che mi ammalai di una delle innumerevoli malattie dei bambini, e fu chiamato il Dott. Pinolini che nel frattempo si era trasferito a Cannobio ed era diventato “il Dottore” per antonomasia (era quello delle emorroidi, dei denti e dei bambini da nascere).
Venne, appunto a visitarmi, e con il suo fare brusco, per prima cosa mi strappò le coperte, perché voleva vedere chiaro di quale malattia fossi succube.
E vide la gatta.
“Cos’è questa roba?”
“E’ la mia gatta” risposi
“mandala via subito” impose.
La gatta ubbidì, ma si sentì offesa.
La nostra casa aveva ampie vie di fuga per raggiungere i tetti, impresa facilissima per una gatta che passeggiava tutte le notti, come tutti i gatti di paese, sui tetti.
Un giorno di sabato mattina, ritornò con un baccalà di 40 cm.
Da buona gatta che si sentiva amata, lo cedette subito volentieri, come se avesse ceduto il topolino sulla soglia di casa.
La domenica dell’indomani fu festa grande. Non ci voleva molto a capire da dove venisse il merluzzo.
Nella Via Giovanola, che era una strada parallela, alla distanza di 50 mt, c’erano due negozi. A destra direzione campanile, c’era la bottega del Signor Pattaroni, che vendeva verdure e che era stato soprannominato “ritratt de la miseria” da mia mamma, data la sua magrezza e l’aspetto emaciato.
Di fronte, a sinistra, c’era la macelleria del “Sciur Vila” che per contrasto aveva un aspetto rubicondo e ben pasciuto, e il merluzzo veniva da lì.
Il Signor Villa aveva anche una bella moglie, due bei giovanotti ed una figlia bionda ed elegante, che faceva a gara con la madre in vestiti, profumi e balocchi.
Possedeva anche una magnifica 1100 Fiat nera, quelle con i fari all’esterno del cofano, una meraviglia.
Ma un bel giorno, come si dice, certo non per lui, morì d’infarto.
Fu una catastrofe famigliare ed economica.
Per un po’ pensai che fosse per il merluzzo della gatta.
Poi mi dissi che non era possibile, dai.
Mio padre aveva trasformato il vano del grande camino della vecchia osteria, trasformandolo in una porta di garage. Anche se aveva solo una bicicletta, con questa operazione andò persa per sempre l’effigie delle tre persone.
Ma il garage fu usato per la prima volta per ospitare proprio la 1100 nera, fatta mettere lì in custodia giudiziaria dal curatore fallimentare della ditta del “Sciur Vila”.
Il Dottor Pinolini era il Medico della Valle, ed era stimato e ben voluto, conosciuto ovviamente da tutti, gran cacciatore.
Un giorno, che ritornando da una battuta di caccia col fucile in spalla, incontrò una paesanotta, desiderosa di comunicargli l’incontro appena avvenuto con un animale selvatico, perciò si rivolse così:
“Uoime Dutur, ò audù a vulp, la cagava fin! (Oddio, ho visto la volpe che defecava, persino!)
Vergognandosi della penultima parola, prese l’orlo del vestito e lo sollevò fino alla bocca per coprire l’origine del suo dire e la parola che aveva avuto l’ardire di pronunciare, e così facendo evidenziò che come Marylin Monroe, non portava indumenti intimi.
Frank the Stories

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