Ottavia Micotti

Ottavia e Vitturin a Cassino, vicino al lavatoio, 1956
Ottavia e Vitturin a Cassino, vicino al lavatoio, 1956

Cannero-Cassino: Ottavia Micotti si racconta.

(da “Agricoltore Ticinese”, 1-7-2011). «All’interno di questo spazio siamo liete di ospitare i racconti di persone che desiderano trasmettere le proprie esperienze di vita legate al mondo rurale e contadino. La narratrice di oggi appartiene al gruppo delle contadine della Valle Leventina; oltre ai suoi ricordi ha voluto condividere con noi ciò che ha vissuto durante la sua gioventù, trascorsa tra campi, animali e montagne.
Si chiama Ottavia Micotti in Meier ed è nata il 4 settembre 1933, in una casa di contadini sulle rive del Lago Maggiore, a pochi chilometri dalla frontiera con la Svizzera. A Cassino, nei pressi di Cannero, gran parte della gente lavorava e viveva della campagna.
Di questo paesello, oggi per lo più meta di villeggianti, Ottavia ricorda una vita di fatiche, in cui tutto si portava sulle spalle. Una vita tanto faticosa che, quando suo padre morì lei prese la strada per Milano, dove andò a lavorare come donna di servizio. In seguito si recò in Svizzera a Losone, fu impiegata come domestica, lavorò ad Ascona, a Cavigliano, Minusio e infine si trasferì a Bodio dove vive tutt’ora».

Ottavia e la famiglia riunita per la vendemmia, 1948
Ottavia e la famiglia riunita per la vendemmia, 1948

Ottavia e la famiglia riunita per la vendemmia, 1948
«Mi chiamo Ottavia perché ero l’ottava figlia, in tutto eravamo nove, presto però divenni la settima perché uno dei miei fratelli morì all’improvviso. Mia madre era la seconda moglie e diceva sempre: “Provate voi ad andare a dormire in due e svegliarvi in otto…”. Frequentai le scuole elementari fino alla quinta, poi andai dalle suore per imparare a ricamare, mia madre voleva che diventassi sarta ma a me non piaceva, così quando c’era poco da fare in campagna andavo a ricamare. Per arrivare a scuola bisognava fare due chilometri a piedi, percorrendo lo stesso tragitto come minimo quattro volte al giorno e se per caso ci si dimenticava di comperare qualcosa in bottega si ritornava di nuovo fino a Cannero. Prima del 1955 c’era solo una mulattiera e bisognava portare tutto in spalla. »
«Avevamo tre o quattro mucche, alcune capre, pecore, galline, conigli e si viveva di ciò che ti offriva la campagna. Si comprava solo il riso, l’olio e il sale, davvero poca roba, si acquistava solo quel che i nostri campi non producevano, anche perché eravamo in tempo di guerra. Avevamo il latte, il burro, la panna, c’era quasi tutto l’occorrente. Chi aveva una mucca, appena nasceva il vitello lo vendeva per pagare il libretto della bottega. Una volta non ti facevano credito, ossia sul libro sì ma solo se avevi la mucca, ma se non ul’avevi eri fritto… io conoscevo un avvocato che mi raccontò di quando un signore gli chiese di fargli una causa e lui gli rispose: “Ma ce l’hai la mucca? Perché altrimenti la causa non te la faccio!”. Ogni paesano aveva una vacca, anche chi d’estate non andava in montagna.»
«Mi ricordo che la vita era più dura di adesso, non avevamo tanto tempo per andare a giocare in piazza come faceva chi non possedeva animali. Noi dovevamo fare l’edera, la foglia (fà la föia) e il fieno. L’edera si dava alle capre e alle pecore in inverno; così, oltre che a nutrire il bestiame tenevamo puliti i muri. D’estate si portavano le bestie in montagna, prima su un monte e poi su un altro, si trascorreva molto tempo ad accudirle. Sia in piano sia ai monti si teneva tutto pulito, ci facevano tagliare ogni singolo pezzetto, anche i prati in pendenza. Quando ero piccola il paesaggio assomigliava a un orto, adesso è un bosco di rovi, c’è ancora qualcuno che tiene qualche pezzettino in ordine, ma davvero pochi, per me è un po’ una delusione… »

«Dove adesso sono cresciuti i rovi prima c’erano i vigneti. Anche noi avevamo un bel po’ di vigna, di nostrana e di americana. Di vino ne facevamo quasi cento litri, non ne comperavamo nemmeno una goccia, bastava per tutto l’anno. Gli uomini di casa ne bevevano tutti i giorni. A volte vendevamo un po’ di uva americana a chi voleva fare la grappa e così si prendeva qualche soldo. Ricordo che si pestava l’uva con i piedi e le gambe diventavano tutte rosse, ma si rinforzavano perché non mi è mai capitato di rompere niente, sarà perché mi facevano andare dentro nel tino? Il primo vino, il cosiddetto vinello, quello dolce che esce dal torchio già un po’ fermentato faceva correre, era come una purga.
La nostra famiglia seminava segala orzo e frumento; una volta mietuti, venivano fatti seccare in covoni e poi battuti. Con il “vall” (ventilabro) il grano veniva separato dalla pula, poi si portava al mulino, si macinava, e con la farina si faceva il pane una volta alla settimana. Per conservarlo lo si metteva nei sacchi di tela di canapa, all’interno di un cassone di legno, in questo modo rimaneva fresco anche per dieci giorni.»

LA COLTIVAZIONE DELLA CANAPA
«Una parte dei tessuti con cui si realizzavano teli, lenzuola e abiti era lavorata a mano con materiali naturali, la canapa era una di questi. La canapa si seminava in primavera e si tagliava nel mese di luglio. Se ne facevano dei mazzetti che si trasportavano in riva al lago, dove si lasciavano al macero per circa dieci giorni. Poi si faceva asciugare e d’inverno, quando nevicava e non si poteva andare in campagna, separavamo la fibra dal legno; quest’ultimo lo usavamo per accendere il fuoco, mentre la materia fibrosa veniva lavorata con la gramola e poi cardata con il pettine. A questo punto veniva filata con il filatoio in modo da ottenere il filo. Con alcuni telai ancora presenti in paese veniva infine tessuta. Il suo colore naturale era sul giallo marrone, ma si usava sbiancarla. I teli venivano bagnati e adagiati sulla sabbia in riva al lago, così, grazie al sole, si scolorivano naturalmente. Poi se non era ancora abbastanza bianca la si lavava con la cenere. Allora per fare il bucato ci volevano tre giorni: prima si lavavano i panni al lavatoio, poi li si metteva a bollire con la cenere nella “boggia” (caldaia da bucato) e per finire si risciacquavano e si stendevano al sole. In tempo di guerra con il filo di canapa si facevano anche le “cordette”, che si usavano per intrecciare la base delle pedule (pedül). Esisteva poi un calzolaio che fabbricava la parte superiore di queste pantofole.»

Ottavia con il fratello Giuseppe
Ottavia con il fratello Giuseppe

LA COLTURA DEL BACO DA SETA
«La bachicoltura era un’attività accessoria praticata da quasi tutti gli abitanti di Cassino. In realtà io di bachi da seta ne ho visti pochi, perché mio padre non praticò molto questa attività, ma li prese per mostrare a noi piccolini come funzionava il procedimento.
Mi ricordo che comprò la cosiddetta “semenza”, ovvero le larve al loro primo stadio di vita.
Nei primi del Novecento nel nostro paese, Cassino, se ne facevano moltissimi, infatti c’era una quantità incredibile di gelsi. Se non sbaglio se ne comprava un’oncia alla volta, credo si chiamasse così, ogni famiglia ne prendeva una.
So che la “semenza” arrivava per posta da Novara, nel mese di marzo. Erano come delle piccole uova da tenere al caldo per farle schiudere.
Ricordo che questi venivano avvolti in un foulard di seta, di giorno si tenevano vicino al camino, perché stessero al caldo, mentre di notte, siccome il fuoco era spento, si adagiavano sotto le coperte, in fondo al letto.»
«Quando le larve iniziavano a muoversi significava che erano pronte per salire sui graticci fatti di cannette di bambù. C’era una stanza adibita interamente a questo scopo, piena di graticci, disposti a grandi strati, dai quali uscivano dei pali dove le larve potevano arrampicarsi. Questo locale si trovava al piano superiore ed era riscaldato con il calore proveniente dal forno a legna di sotto.
Come nutrimento davamo loro le foglie di gelso, tagliate finissime, altrimenti c’era il rischio che morissero. Una buona parte moriva comunque, mentre quelle che riuscivano a sopravvivere, una volta mature si facevano arrampicare su un ramo di erica alto circa 20-30 centimetri. Arrivati in cima si fermavano lì e facevano il bozzolo.
Dopo circa trenta giorni iniziava la raccolta dei bozzoli; c’era un signore che veniva a prenderli: alla fine di giugno i bachi sopravvissuti erano venduti alle fabbriche di seta del Vercellese. Per un etto di bozzoli si prendeva una lira, e per farne un etto ce ne volevano… Ma a quei tempi la lira valeva più del franco.
Pensa che con una lira venivano da Cannero a Locarno con il battello a comperare la cioccolata. La seta che si ricavava veniva avvolta in un rotolo come il cotone, era filata unicamente nelle fabbriche e non a Cassino. Con gli scarti di seta che recuperavano dopo la vendita si facevano le calze. A casa la filavano grossa come la lana… »
«La coltura del baco era un’attività che si faceva prima della seconda guerra. Fino al 1930 la praticavano tutti, era il primo raccolto che facevano per avere qualche soldino.
Era una coltivazione che necessitava premura, ma durava solo tre mesi.
Mio padre mi diceva che certe stagioni andava bene, mentre altre siccome davano loro le foglie bagnate ne morivano moltissime.
Nella piazza del paese un tempo c’erano dei gelsi secolari ad uso comunitario, erano piante enormi dalle quali tiravano giù quintali di foglie per nutrire i bachi. Poi li hanno strappati per piantare il tiglio.
Oltre a questi alberi ogni famiglia possedeva i propri. Il gelso è una pianta che continua a crescere anche se la si taglia, è come la vigna, non scompare mai, la radice rinasce sempre».

Cassino, piazza della Chiesa, 1952
Cassino, piazza della Chiesa, 1952

Cassino, piazza della Chiesa, 1952
In alto in piedi: Roberto (vacanziere);
sotto, da sinistra a destra:
Franco, Robert (vacanziere), Valerio, Luigi, Roberto;
in basso: Giancarlo, Bruno, Mauro, Rico, Adriana, Ferruccio.
Testi e immagini tratte da:
http://ilbastiancontrari.blogspot.com

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