Camilla Tappa

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Questo mese la dottoressa Camilla Tappa ci racconta la sua attività psicologica in Cure Palliative con un articolo veramente interessante che siamo sicuri vi emozionerà.

Quando, dopo il liceo, mi sono iscritta alla facoltà di Psicologia, l’idea che avevo del lavoro che avrei voluto fare era influenzata da suggestioni in merito ad un signore con la pipa (Sigmund Freud), uno studio con un lettino e pazienti con problematiche di vario genere che gli facevano visita per lasciarsi curare dalle sue competenze.
Man mano che proseguivano gli studi la nozione del fatto che la cura fosse insita principalmente nella relazione piuttosto che nei tecnicismi ci è stata pazientemente inculcata, allo scopo di farci comprendere quale fosse realmente la base della nostra professione.
Ma, nonostante l’enfasi data all’argomento fosse molta e per quanto fosse una delle ragioni principali che mi portavano a trovare il lavoro di psicoterapeuta così affascinante, credo di non aver mai realmente capito cosa si intendesse fino a quando non ho messo piede all’Hospice San Rocco.

Lo psicologo in Cure Palliative, in Hospice in particolare, ha tre compiti fondamentali: occuparsi dei pazienti, dei parenti e dell’equipe curante. Ma in tutti e tre questi ruoli si va ben oltre il signore con la pipa e il setting strutturato e formale dello studio con lettino.
Questo perché lo psicologo in Cure Palliative non è soltanto un esperto che, attraverso le proprie competenze, si occupa di risolvere sintomi psichici alla base di disadattamenti e sofferenza ma è, prima di tutto, un essere umano che, grazie alla propria professionalità, ha il privilegio di entrare in relazione con persone che stanno attraversando il momento più spaventoso, difficile e doloroso di tutta la loro vita.
I pazienti ed i parenti ricoverati in Hospice non vengono nel nostro studio, non si sdraiano sui nostri lettini aprendo la loro mente all’analisi del loro modo di rapportarsi al mondo, alle altre persone e a loro stessi, ma, al contrario, siamo noi a fare il nostro ingresso nella loro stanza.
Questa differenza apparentemente così banale rende, invece, il nostro ruolo tanto peculiare.
Non si può entrare nella vita e nel mondo degli altri armati semplicemente dalla curiosità scientifica di comprendere i meccanismi di ciò che si cela all’interno della loro mente.
Bisogna, al contrario, muoversi in punta di piedi, motivati dalla voglia di comprendere prima che da quella di analizzare e risolvere.
Per questo bisogna adeguarsi ai ritmi dell’altra persona, non a quelli di una professione normalmente così rigidamente scandita nelle tempistiche.
Il paziente ricoverato, nel momento in cui noi abbiamo in mente di proporgli una seduta di sostegno psicologico, può essere reduce da una notte insonne ed aver voglia di riposare, o può aver appena ricevuto la visita di una persona che attendeva da tempo e scegliere quindi di rimandare l’appuntamento concordato.
Infine può più semplicemente trovarsi in una giornata nella quale non ha voglia di parlare, ma nemmeno di essere lasciato solo e succede quindi che chieda allo psicologo di rimanere con lui in silenzio, continuando in questo modo a comunicare tralasciando le parole.
Ciò non significa che non ci sia terapia, che non si affrontino clinicamente le problematiche e le necessità di ogni persona che si incontra all’interno del reparto ma semplicemente che il tempo, all’interno di questa relazione, assume un significato e addirittura una scansione a parte, estranea alla febbrilità ed alla rigidità del mondo esterno.

Nell’approccio con ogni malato è fondamentale cercare di conoscere la persona che ci si trova di fronte raccogliendo dati sulla sua storia, tentando di comprendere il significato che attribuisce alla sua malattia e come questa si inserisce nella storia di vita della persona. Ma è importante soprattutto legittimare la sua sofferenza e offrirle uno spazio in cui possa esprimersi senza riserve e senza pudori.
Non bisogna dimenticarsi mai che ogni sintomo è soggettivo e che l’esperienza di malattia è unica e non assimilabile a qualsiasi individuo possiamo aver approcciato in passato: ognuno di noi possiede risorse cognitive ed emotive peculiari alle quali attingere ed, allo stesso modo, possono essere presenti ostacoli interni ed esterni (personali, relazionali o contestuali) che rendono più difficoltoso il processo tramite il quale trovare dentro di sè un significato al proprio vivere ed al proprio morire.
Il paziente in Cure Palliative si trova a fronteggiare, infatti, problemi che spaziano da reazioni più che comprensibili di ansia e depressione alla diagnosi di malattia con prognosi infausta, difficoltà relazionali e/o familiari, a complicazioni connesse con la consapevolezza e l’accettazione della propria condizione di terminalità, passando perchè no per criticità inerenti psicopatologie pregresse.

Lo stesso si può dire dei familiari delle persone ricoverate.
Anche con loro l’approccio ha poco a che fare con il celeberrimo signore con la pipa.
Per sottoporsi ad una seduta con noi gli chiediamo, infatti, di allontanarsi dal proprio caro e, per quanto il bisogno di supporto possa essere pressante, tale richiesta può risultare insostenibile se letta nell’ottica di una relazione in cui il tempo che si vorrebbe dilatare, tende invece a ridursi progressivamente.
Quindi, anche in questo caso, pur occupandosi di cogliere la soggettività del dolore della famiglia, di comprendere e legittimare i bisogni percepiti ed i bisogni latenti, di costruire un’alleanza terapeutica e facilitare la comunicazione, la parola chiave diventa flessibilità.
Il tempo per un intervento strutturato e da manuale verrà in seguito, grazie alla nostra associazione “Angeli dell’Hospice Vco ODV”, che offre alle persone significative nella vita dei nostri malati la possibilità di accedere ad un percorso di elaborazione del lutto, allo scopo di prevenire l’esordio di un lutto patologico o anche solo complicato.

Per questo e per molti altri motivi lavorare in Hospice è fonte di una girandola di emozioni che non si esaurisce mai e che, fortunatamente, non viene vissuta da noi operatori in solitudine ma bensì all’interno di un’equipe multidisciplinare.
Il nostro gruppo è formato da persone che, ogni giorno, si calano in questa realtà consapevoli più di ogni altra cosa che il nostro lavoro è costituito soprattutto dalla relazione: la relazione con il paziente, quella con i suoi familiari e ultima, ma non meno importante, la relazione tra di noi.
Il compito dello psicologo nei confronti degli altri operatori riguarda il facilitare la creazione di un linguaggio comune e la costruzione di un significato condiviso, il favorire il riconoscimento di dinamiche importanti per il paziente e la sua famiglia e l’aiutare a comprendere il possibile coinvolgimento emotivo di ognuno di noi nella gestione del caso allo scopo di renderci più consapevoli della nostra affettività nei confronti del paziente e/o della sua famiglia. Ma non solo: noi terapeuti ci occupiamo anche di integrare le informazioni provenienti da differenti punti di vista favorendone l’assimilazione, facilitare l’individuazione di modalità di relazione e strategie d’intervento il più possibile in sintonia con la storia del paziente ed affiancare gli operatori durante le comunicazioni più delicate.
Come psicologa dell’Hospice San Rocco, dunque, non possiedo una pipa, utilizzo solo in parte uno studio, per altro sprovvisto di lettino, ma ho ogni giorno il privilegio e l’onore di entrare a far parte di una relazione unica e privilegiata con pazienti, familiari ed operatori, una relazione nella quale si parla, si analizza, si comprende, si piange, si ride ed in un’unica parola… si vive.

Dott.ssa Camilla Tappa
Psicologa Psicoterapeuta